Questo articolo è stato pensato diviso in due parti: nella prima vorrei fare alcune considerazioni sulla “questione medica” ma collocandola come un fenomeno complesso dentro il divenire del tempo. Nella seconda invece vorrei riflettere su alcuni atteggiamenti, che io giudico decisamente conservatori che, a mio avviso, negano la questione medica al fine di contrastare questo divenire. Il benevolo Lettore spero vorrà perdonarmi per la lunghezza del testo.
Prima parte
Se, come io credo, la “questione medica” che ricordo è stata l’oggetto di una mia mozione e di una approvazione da parte del Consiglio Nazionale che ha immediatamente preceduto la formazione dell’attuale Comitato Centrale della FNOMCeO, impegnandolo ad affrontarla, segna il passaggio dal vecchio al nuovo, (ciò che il presidente Anelli ha definito il “cambio di passo”), la sua negazione, affermerebbe la riproposizione del vecchio e quindi giustificherebbe una strategia di continuità, con ciò negando la necessità di un “cambio di passo”.
Se la “questione medica” non esiste perché dovremmo fare un cambio di passo? Ma se esiste perché dovremmo non farlo?
Il quesito, se ci si pensa bene, chiama in causa la credibilità dell’attuale gruppo dirigente della FNOMCeO ma soprattutto rimette al centro la questione della strategia. Quale la strategia della FNOMCeO?
Se dovesse risultare che, la “questione medica” non esistesse, o fosse insussistente, io credo che questo gruppo dirigente si dovrebbe dimettere dal momento che la sua strategia si fonda innegabilmente sul presupposto della sua esistenza. Se invece dovesse risultare che essa esiste, allora ben altri dovrebbero dimettersi dai loro incarichi o ruoli o incombenze, o quanto meno, farsi da parte, per non ostacolare ciò che, nell’interesse primario della professione, non andrebbe ostacolato.
Detto ciò io credo che uno dei meriti di questa FNOMCeO, con la messa in cantiere degli Stati Generali, è sicuramente quello di aver smosso un pachiderma semi-anchilosato che da tempo immemore ha fatto dell’indolenza uno stile di lavoro.
Mi riferisco al sistema degli Ordini nel suo complesso, quello che istituzionalmente “avrebbe dovuto/dovrebbe” sovraintendere ai problemi della professione.
Tale indolenza o, se si preferisce, il profilo molto basso, troppo burocratico, molto poco combattivo degli Ordini, tradizionalmente consociativo, è mia opinione, che sia alla base, quindi corresponsabile, della “questione medica”. Ovviamente, sia chiaro, nella misura, in cui, qualsiasi forma di inerzia o indolenza partecipa come concausa passiva ai grandi processi di cambiamento della storia. Quando penso alle vicende della nostra professione mi viene in mente la caduta dell’Impero Romano di Occidente. La degenerazione burocratica del sistema, insieme alla corruzione sistematica, alla mancanza di coesione sociale, sono state, dicono gli storici, alcune concause di questa storica caduta, causata, poi, in modo definitivo dalle invasioni barbariche. Ma se l’Impero di Occidente non fosse stato internamente debole i barbari da fuori avrebbero fatto poco.
Se è vero, come spesso ci spiega il presidente Anelli, che con l’espressione “questione medica” ci si riferisce ad un processo lungo che nasce nel ‘900 ma si manifesta nel terzo millennio, non è strampalato sostenere che gli Ordini del ‘900, abbiano nel loro complesso delle corresponsabilità.
Vorrei chiarire, a scanso di equivoci, che queste corresponsabilità, per me medico del ‘900, quindi a mia volta esattamente corresponsabile come gli altri, non sono “colpe” e meno che mai sono “colpe personali”, ma sono soprattutto limiti storici e culturali, quelli che, immancabilmente caratterizzano ogni epoca, ogni fase, ogni periodo. Che colpa avrei io se ai miei tempi il senso comune che prevaleva nella professione era, ad esempio, il consociativismo?
Parlo soprattutto di un senso comune quindi di limiti culturali, politici, organizzativi, anche cognitivi, che però, nel loro insieme ci hanno impedito già nel ‘900 di comprendere, in tempo, il “pericolo dei barbari”, cioè i cambiamenti nei quali eravamo immersi, e di rispondere ad essi tempestivamente, e quindi prevedere la “questione medica”. Chiedo ai miei colleghi che nel ‘900, come me, hanno rappresentato, in qualche modo, la professione: la “questione medica” era prevedibile? A leggere certe cose di 30 anni fa scritte da qualche profeta di sventura, gli stessi che oggi scrivono guarda caso, delle tesi per farci discutere, sembrerebbe di sì, ma allora perché noi non ci siamo attrezzati?
Mi ha favorevolmente colpito l’articolo di Brenda Menegazzo (QS 17 marzo 2019) quando ci fa notare, con molto senso pratico, che un conto è essere medici alla fine e altro all’inizio della carriera, cioè, aggiungo io, un conto è essere medici del ‘900 e un conto è essere medici del terzo millennio. Ed ha ragione. La laurea è la stessa, l’Albo pure, purtroppo, anche l’università, anche gli Ordini, o almeno molti di essi, ma dal momento che l’esercizio della professione non è una variabile indipendente dai contesti sociali, economici e culturali in cui opera, cambiando i contesti di fatto la professione finisce per essere diversa.
Alla giovane Collega, mi limito a dire, che la mia generazione è la prima che ha sofferto l’impatto del cambiamento, che ha provato sulla propria pelle l’esperienza dello spaesamento, la costante perdita di identità, la lenta ma inesorabile delegittimazione sociale, lo scollamento tra medicina e società l’esperienza della sfiducia sociale fino ad arrivare ai giorni nostri alla violenza fisica dei nostri malati. Essere i primi vuol dire che si crede che fare il medico significhi una certa professione e poi scoprire, strada facendo, che la professione è nella realtà molto diversa da quella che si pensava. In questa scomoda posizione spesso non si è in grado di avere le idee chiare, di capire i problemi fino in fondo, di essere, in una certa misura, degli sprovveduti di fronte alle difficoltà. Ci si arrangia come si può.
Oggi diciamo che c’è la “questione medica” ma non più tardi di 10 anni fa, a parte i soliti profeti di sventura, nessuno di noi, era in grado di formulare una diagnosi sulla nostra crisi, eppure quella crisi era lì sotto i nostri occhi, addirittura era dentro di noi. Questa generazione, la mia, nasce da un certo paradigma di medicina, che però nel corso di buona parte del ‘900 viene lentamente ma inesorabilmente confutato, suo malgrado, da una congerie di cambiamenti culturali sociali perfino economici, fino a trovarsi, nei confronti del nuovo, sempre più spiazzato. E a metterci nei guai.
La nostra giovane Collega, cioè la generazione che lei rappresenta, invece si trova fin dall’inizio dentro un gioco diverso con regole diverse cioè in un’altra realtà sociale ma con la stessa laurea lo stesso Albo la stessa Università e purtroppo lo stesso paradigma. Il suo problema è l’asimmetria, l’inadeguatezza. Lei è stata preparata ad un gioco ed ora la costringono a giocare un altro gioco. Il vantaggio è che oggi, diversamente da ieri, abbiamo le idee più chiare, cioè disponiamo di una analisi delle cose molto più avanzata. Oggi possiamo dire che ad esempio, c’è “una questione medica”.
Si capisce quindi bene il quesito, denso di significati, che la collega Menegazzo pone: le soluzioni che servono (…) devono essere orientate alla difesa del passato o a costruire un futuro possibile? Cioè difendiamo il ‘900 da tutto ciò che lo sta ridiscutendo, rischiando di appiattirci nella sua apologia, o inventiamo il terzo millennio impegnandoci in un cambiamento?
Come si è visto dal dibattito in corso, su questo giornale, alcuni di noi sono per difendere il ‘900, che poi alla fine è un difendere, come è comprensibile, la loro storia personale che si vorrebbe sempiterna. Costoro, ottimi medici e ottime persone, alla fine della carriera, dopo aver calcato la scena per tanti anni, non vorrebbero sentir parlare di cambiamenti del paradigma, di crisi di questo e di quello, e vivono male non le loro responsabilità personali ma le loro corresponsabilità storiche, quelle che hanno concausato la caduta dell’Impero Romano di Occidente.
A sentir loro hanno fatto meraviglie, ed è vero, cioè hanno fatto tutto il possibile che era possibile nel loro tempo, e forse, proprio per questo, sotto sotto, per loro la questione medica anche se esiste non esiste. Troppo difficile, troppo complicata, troppo mortificante.
Altri, mi riferisco in particolare alle iniziative del mio Ordine che ho l’orgoglio di dire che per primo ha fatto una approfondita discussione sulle 100 tesi, a quelle molto interessanti dell’Ordine di Venezia, capitanate, dalla Collega Mancin, con il supporto del suo presidente, sono decisamente orientate a costruire una nuova medicina e un nuovo medico.
A questo proposito mi colpisce di nuovo la valutazione, puntuale e intelligente, della giovane Collega Menegazzo sulle 100 tesi quando da una parte le giudica orientate al futuro e nello stesso tempo tutt’altro che liquidatorie nei confronti del passato. Ha ragione lei. Non si tratta di buttare alle ortiche un glorioso paradigma ma di ridefinirlo e di ricontestualizzarlo tenendoci tutto quello che in esso c’è di buono ma liberandoci della zavorra.
La mia personale idea sulle 100 tesi, quella che mi sono fatto leggendole e rileggendole, ma anche attraverso la straordinaria discussione che abbiamo fatto come Ordine, e tante conversazioni di chiarimento con chi le ha scritte, è che esse sono come un ponte tra il ‘900 e il terzo millennio, cioè tra un vecchio medico del ‘900 come me e la giovane Collega del terzo millennio come la dottoressa Menegazzo.
Quindi un ponte che dobbiamo attraversare, per mettere in condizione non chi è alla fine della carriera, cioè il ‘900, ma chi è all’inizio e che comunque già in pista da qualche tempo, ha ancora davanti un bel pezzo di strada da fare.
Seconda parte
In queste settimane sono apparsi una serie di articoli che, a ben guardare, sembrerebbero apparire come il “combinato disposto” di un comune pensiero conservatore. Esaminerò succintamente le tesi di fondo di questi articoli conservando il loro ordine cronologico.
Il primo che vorrei richiamare è quello di Pierantonio Muzzetto, Presidente dell’Ordine di Parma (QS 5 marzo 2019). Sulle prime, il suo articolo molto denso e verboso, accenna a problemi che lasciano intendere una qualche apertura verso un cambiamento anche se non poche sono le contraddizioni che emergono (ad esempio nonostante si ammetta il mutamento sociale e culturale del cittadino malato si nega incomprensibilmente la necessità di una deontologia sociale). Ma poi la conclusione dell’articolo è lapidaria: “Non crisi del medico, dunque, o comunque rimodellamento della sua capacità di cura e di rapporto. E allora, quale sarà il nuovo servizio sanitario?”
Se si nega l’esistenza di una “crisi professionale” cade la tesi strategica della “questione medica”, e il “cambio di passo” è del tutto inutile dal momento che, il ponte tra ‘900 e terzo millennio, non c’è bisogno di farlo perché il problema non è il medico ma la sanità.
Vorrei rammentare che il Presidente Muzzetto in calce all’articolo si firma come “Coordinatore Nazionale della Consulta Deontologica” della FNOMCeO, particolare che non è sfuggito ai diversi commenti critici che il suo articolo ha ricevuto, perché se non esiste la crisi della professione non c’è bisogno di ripensare la deontologia, basta aggiornarla come si è fatto sino ad ora a modello invariante. Per cui poco conta se il modello di base di questa deontologia ha più di un secolo e meno che mai se il Presidente della FNOMCeO e diversi Consigli Nazionali abbiano più volte ribadito la necessità di una riforma della deontologia, e meno che mai se l’ultimo aggiornamento del codice (2014) abbia spaccato in due il sistema Ordinistico.
Ma non solo, siccome è tutta colpa della sanità e la crisi non c’è, il grande lavoro di ripensamento della deontologia fatto a Trento, con il patrocinio della FNOMCeO, al cui convegno di presentazione ero presente con il Presidente Anelli, viene di fatto liquidato come irrilevante.
Cioè la dottoressa Menegazzo, medico del terzo millennio, per esercitare la professione, dovrà restare con le regole deontologiche del ‘900 solo perché il dottor Muzzetto non è d’accordo ad uscire da questo secolo.
Il secondo articolo è di Maurizio Benato ex presidente dell’ordine di Padova, ex vicepresidente FNOMCeO, attualmente componente della commissione nazionale per gli Stati Generali e della Consulta Deontologica FNOMCeO (QS 12 marzo 2019).
Il suo articolo, come quello da lui scritto precedentemente (QS 21 febbraio 2019), è molto interessante, pieno di considerazioni sulla scienza e sui suoi progressi, per certi versi acuto, ma le sue conclusioni sono a dir poco disorientanti: “Non c’è una crisi della medicina sul versante scientifico. Sul versante clinico c’è solo la necessità di una riscoperta della natura fondamentalmente interpretativa del processo clinico”.
La cosa che mi colpisce di Benato, sul cui impegno per la professione non ho mai nutrito dubbi, è che le sue perplessità sono tutte, nessuna esclusa, facilmente chiarite dalle tesi, che evidentemente pur avendole lette, ha deciso, a priori, di non considerarle. Se avesse letto le tesi, come ho cercato di fare io, anche non lo nascondo ricorrendo a spiegazioni di supporto, per capire la fondatezza dei suoi rilievi, non solo avrebbe trovato una straordinaria ridefinizione di medicina, sulla quale lo sforzo propositivo delle tesi è davvero alto, ma avrebbe trovato una riformulazione dell’idea di medicina, nella quale non è possibile separare come fa lui, la scienza dalla clinica, mantenere la distinzione nomotetico/idiografico, e nemmeno ridurre tutto a ermeneutica o a metodologia o a un generico ripensamento epistemologico. Il metodo nella nostra idea di scienza che, a dir il vero le tesi confermano, è la spina dorsale della conoscenza medico-scientifica, ma esso è ricavato da un paradigma di tipo positivistico che assegna ad esso, quasi un valore dogmatico super vincolato e super vincolante. Quando le tesi dicono, soprattutto riferendosi alla medicina amministrata, che il problema non è “la libertà dal metodo ma la libertà nel metodo” è del tutto evidente che questo è possibile se il paradigma accetta di ridiscutere il rapporto tra autonomia intellettuale del medico e metodo, cioè se esso accetta un ruolo intellettuale del medico più avanzato di quello previsto dal paradigma classico, al punto da metterlo in condizione, di governare quella complessità che sfugge a qualsiasi metodo a qualsiasi procedura a qualsiasi linea guida.
Si tratta, sempre per citare le tesi, da una parte di mettere insieme razionalità e ragionevolezza, buon senso dall’altra di inventarci un medico “autore” come ci è stato proposto. Tutto questo per quello che ho capito e per quello che mi è stato spiegato, non è riducibile ad “un aggiornamento epistemico” e meno che mai alla “mancanza nell’insegnamento della medicina degli strumenti metodologici”. Tutto questo implicherebbe ben altro, cioè un ripensamento paradigmatico più complesso, che, tuttavia, Benato con mia grande sorpresa nega. A mio modesto parere la crisi della medicina esiste e coincide fra l’altro con una crisi ampiamente studiata nella seconda metà del ‘900 di una certa idea positivista della scienza. Proprio perché crisi di paradigma essa non potrà essere risolta, come pensa Benato, solo sul piano dell’ermeneutica o sul piano dell’interpretazione.
Il punto però alla fine è che se non c’è una “crisi della medicina” la “crisi del medico” non è più una crisi ma un “disagio” come dice qualcuno quindi una semplice difficoltà risolvibile: per Muzzetto cambiando la sanità, per Benato con qualche aggiornamento metodologico in sede di formazione. Anche in questo caso ridimensionando la crisi del medico salta l’idea della questione medica e tutto il resto.
Il terzo articolo che voglio esaminare è quello del dottor Di Stefano, prestigioso Presidente dell’Ordine di Brescia, nel quale a parte una serie di affermazioni molto discutibili, a parte la negazione di molti problemi che esistono nella nostra realtà, (il mio autorevole Collega è convinto che non esiste il problema dello scientismo e che università illuminate insegnino già ora a curare i malati e non le malattie, per cui il cambio di paradigma soprattutto nella pratica medica ordinaria già è avvenuto), viene negata l’esistenza della “questione medica” che è alla base delle 100 tesi, in modo subdolo quanto curioso : “manca un’indagine documentata della realtà descritta; le affermazioni non sono suffragate da dati obiettivi né da fonti bibliografiche”, ma quel che è ancor più interessante è che in questo articolo una serie di rilievi su la “scelta delle questioni”, “sull’impostazione”, sulle modalità della discussione, sull’oggetto della discussione ecc. sono usati contro le 100 tesi quindi contro il suo volenteroso e coraggioso estensore, quando queste sono tutte decisioni di impostazione prese dai massimi livelli dalla FNOMCeO coadiuvata da una commissione nazionale per gli Stati Generali di cui anche io mi onoro di fare parte.
L’unica responsabilità addebitabile all’estensore delle 100 tesi è di averle scritte, certamente con idee sue e quindi assumendosi una responsabilità intellettuale non comune, ma in accordo con la FNOMCeO, con l’intento di aprire una discussione. Le tesi servono per discutere non per altro.
A parte la scorrettezza di parlare a nuora perché suocera intenda cioè di criticare le scelte strategiche della FNOMCeO criticando duramente l’estensore delle 100 tesi, mi chiedo, ma solo a mò di battuta, ma sulla base di quali evidenze scientifiche e di quale bibliografia la FNOMCeO ha deciso che esiste una questione medica una crisi della professione e una crisi della medicina?
Quindi anche nell’articolo del dottor Di Stefano la questione medica, la crisi della medicina, la stessa crisi del medico, perdono di sostanza e alla fine l’unica alternativa che il mio dubbioso Collega offre alla dottoressa Menegazzo, medico del terzo millennio, è l’apologia del ‘900.
L’ultimo articolo che desidero menzionare è quello che a mio parere tradisce più degli altri, un disagio esemplare dovuto dall’essere spiazzati, proprio come ‘900, dalla coraggiosa iniziativa della FNOMCeO. Si tratta di un articolo scritto dal Collega Antonio Panti, uno dei massimi patriarchi della professione, a lungo prestigioso Presidente del prestigioso Ordine dei Medici di Firenze, che in modo anche poco elegante a mio parere tenta di coordinare e di sintetizzare i diversi articoli citati al fine di “coordinare“, quasi, la difesa del ‘900. Antonio Panti è anche lui membro della Commissione Nazionale per gli Stati Generali e della Consulta Nazionale della Deontologia. Quindi, distinguendo l’estensore delle tesi dagli organizzatori degli Stati Generali è colui che, insieme ad altri compreso me, ha deciso tutto quello che sul piano organizzativo e metodologico ha suscitato perplessità nel dottor Di Stefano.
Ciò nonostante il Collega Panti non esita a sottoscrive le tesi “sapienti e piene di saggezza” del dottor Di Stefano, quelle del dottor Benato sull’inesistenza della crisi della medicina giudicandole “condivisibilissime”, e, dopo aver dato un contentino a tutti (Mancin, Cocconcelli, Tarca e Menegazzo) conclude il suo articolo con una ineffabile proposta: “ rendere più congruo il servizio sanitario con i diritti dei cittadini e con le esigenze professionali, rendere più agevole la vita del medico quale interprete della scienza presso la società, è un'opera di per sé meritoria”.
Al quesito posto da Panti “la crisi professionale del medico è anche crisi della medicina” Panti, accettando le tesi di Muzzetto di Benato e di Di Stefano e nello stesso tempo, con un bel salto mortale, dichiarandosi ecumenicamente d’accordo con la collega Menegazzo, risponde, non c’è, né l’una né l’altra, perché il problema è la sanità.
Ora tra me e Panti, come si è visto anche su questo giornale, non c’è mai stata una grande sintonia, specialmente in ordine alla questione del “task shifting”, poco male, ognuno ha le idee che crede giuste, ma a questo punto dopo aver letto il suo articolo, rivendico il diritto al disorientamento: in esso le parole “crisi” e “questione medica” come di incanto spariscono, sostituite dal concetto ambiguo di “disagio”, mentre , su questo giornale, non più tardi di un anno fa ci ha spiegato con un articolo tragico sul “tempo che fu e che non tornerà mai” (QS 5 gennaio 2018) che : esiste un grave burn out dei medici, i medici sono spogliati delle loro competenze, le risposte di chi rappresenta i medici sono carenti, i medici sono alla fine del loro ruolo e che per questo devono trasformarsi, e citando Charlie Buckwell, aggiunge “è necessario un nuovo paradigma della trasformazione” chiudendo il suo articolo in modo ineffabile “eppure una professione che si fonda sull'analisi della realtà dovrebbe almeno provarci”.
Evito ogni commento e chiudo qui. La coerenza probabilmente resta un bene raro.
Vorrei concludere dicendo ancora due cose: il Collega Di Stefano e il Collega Panti hanno definito in modo svalutante le 100 tesi “ un fiume di parole” in cui c’è il rischio di perdersi: non concordo con questo giudizio prima di tutto perchè è irrispettoso nei confronti di un lavoro poderoso che nessuno di noi anche con 10 anni di tempo con riunioni h 24, sarebbe mai stato in grado di fare, secondo perché è un giudizio semplicemente, come dire stupido? visto che sta nel solco di quello che nelle tesi viene definita “la banalizzazione del medico“ ad opera del medico che non conosce neanche lui le proprie complessità. Ripensare il medico non è proprio una passeggiata ma semplicemente perché anche lui non è semplificabile. Il guaio è che i primi a semplificare i medici sono i medici che ci dicono che la loro crisi non è niente altro che robetta. Non è così. Non si ripensa il medico a paradigma invariante. Ripensare il nostro paradigma è un fatto epocale, per niente semplice, per il quale ci vorrà un molto tempo e molti altri “fiumi di parole” ma, soprattutto, altri medici.
Banalizzare le 100 tesi ad un “fiume di parole” cioè banalizzare lo sforzo intellettuale, di mettere insieme scienza, filosofia, etica, economia, sociologia, organizzazione sanitaria, e un tante altre cose, significa, dare luogo ad un giudizio a priori altrimenti detto pregiudizio, che oltre ad essere ingiusto francamente non ci serve.
A nome della professione chiedo rispetto per chi ci sta dando una mano ed esprimo gratitudine a chi tanto generosamente e con tanta passione e intelligenza si è messo al servizio della nostra causa. Credete a me ci è andata bene, e chapeau al presidente Anelli che ha avuto l’intuizione ma anche il coraggio di affidare la scrittura delle 100 tesi all’unico “provocatore”, come lui lo definisce, che le poteva scrivere, altrimenti il rischio era di contemplarci l’ombelico fino a professione estinta.
La seconda ed ultima cosa che voglio dire è che più si riduce il problema della “questione medica”, più si tenta di scorporare il medico dalla medicina, (disagio ma non crisi, clinica ma non scienza, sanità ma non medicina, metodo ma non medicina, medico ma non medicina ecc.), più la necessità del cambiamento si riduce. Cioè più si conserva il ‘900 e meno si cambia quindi meno si fa fatica.
Se dovessi aderire alle tesi che ho confutato, per coerenza, scriverei una lettera al Presidente Anelli per chiedergli di non fare gli Stati Generali. Fare una cosa tanto importante per partorire un topolino, se non fosse tragico farebbe ridere. Se si tratta di fare l’apologia del ‘900 gli Stati Generali è meglio non farli. Gli Stati Generali vanno fatti per ripensare il ‘900.
Noi a Bologna ne siamo tanto convinti che dopo il convegno del 27 febbraio, nel quale, come dicevo, abbiamo discusso le 100 tesi, abbiamo deciso di istituire tre commissioni di lavoro per offrire dei contributi di approfondimento: una sulla riforma degli studi universitari, una sulla relazione medico/malato ed una sui problemi della odontoiatria. Giancarlo Pizza Presidente OMCeO Bologna
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